La chimica in pillole

CHIMICA INORGANICA E GENERALE

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STRUTTURA ATOMICA
L’atomo rappresenta il componente fondamentale di tutta la materia presente nell’Universo, che risulta quindi costituito da un numero elevatissimo di queste piccolissime unità da cui dipendono tutte le caratteristiche degli elementi di cui sono fatti gli oggetti comuni, come l’idrogeno, il carbonio o il ferro. L’idea che la materia sia fatta di atomi è molto antica, ma il primo modello di struttura atomica (poi rivelatosi incompleto) fu proposto solo alla fine del 19° secolo scorso da Rutherford. Infatti già gli antichi filosofi greci immaginarono che ogni oggetto si potesse dividere in mattoncini piccolissimi, che chiamarono atomi, cioè “indivisibili”. Oggi sappiamo che la materia è veramente formata dagli atomi, grandi appena un centomilionesimo di centimetro, ma sappiamo anche che essi non sono affatto indivisibili, anzi, hanno una struttura interna ben definita. Infatti un atomo consiste di una piccolissima parte centrale, detta nucleo, centomila volte più piccola del diametro dell’atomo, che tuttavia contiene quasi tutta la sua massa. Attorno al nucleo si muovono gli elettroni, che sono delle particelle leggerissime e puntiformi portanti una piccola carica elettrica negativa. Da questa descrizione si evince come tutta la materia, anche quella più dura come un diamante, sia costituita da particelle formate in gran parte da vuoto. Questa peculiarità nasce dalle grandi forze che tengono uniti elettroni e nuclei. All’interno del nucleo, infatti, si trovano particelle circa duemila volte più pesanti dell’elettrone, i protoni, provvisti di una carica elettrica di segno positivo. Ogni atomo allo stato base contiene tanti elettroni quanti sono i protoni dentro il suo nucleo. Queste particelle attirano e trattengono vicini a sé gli elettroni, come il Sole attira e trattiene attorno a sé i pianeti. Tutto ciò avviene perché la natura è fatta in modo che cariche di segno opposto si attirano (per esempio un protone e un elettrone), mentre cariche di segno uguale (per esempio due elettroni) si respingono. Va detto che nel nucleo non ci sono solo protoni, ma anche altre particelle, dette neutroni, che non hanno carica elettrica, ma hanno una massa leggermente superiore ai protoni. In un atomo, il numero di protoni (e quindi quello degli elettroni, se l’atomo è neutro) è detto numero atomico e si indica con la lettera Z, mentre il numero dei protoni sommato a quello dei neutroni prende il nome di numero di massa e si indica con la lettera A. Per gli atomi più leggeri, il numero di neutroni è uguale a quello dei protoni. Ma al crescere del numero atomico il numero dei neutroni aumenta più velocemente di quello dei protoni. Per esempio un atomo di piombo ha numero atomico 92 ma numero di massa di 207: nel piombo i protoni sono 92, mentre i neutroni sono 115. Per ogni elemento esistono atomi che pur avendo lo stesso numero di protoni (e non potrebbe essere diversamente), hanno un diverso numero di neutroni, cioè con diverso numero di massa. Sono gli isotopi, termine anche questo derivante dal greco e che significa “stesso luogo”, proprio ad indicare che questi atomi appartengono a uno stesso elemento. Facciamo un esempio: l’idrogeno è una miscela di tre isotopi, chiamati rispettivamente prozio, deuterio e trizio. I tre isotopi hanno un protone ciascuno ma differiscono per il numero di neutroni. Il prozio non ha neutroni, il deuterio ne ha uno e il trizio ne ha due. Ciascun elemento è costituito da una miscela di isotopi in percentuale sempre costante.

 

MODELLI ATOMICI
Si deve all’atomismo di Democrito (460-370 a. C.) la prima visione completamente meccanicistica nel mondo greco, teoria successivamente ripresa anche da Epicuro (341-270/271 a. C.) e dal poeta latino Lucrezio (98-54 circa a. C.). Secondo Democrito tutta la realtà è costituita da atomi che si muovono ininterrottamente nel vuoto. Si tratta di particelle elementari, indivisibili, che differiscono tra loro solo per caratteristiche quantitative o oggettive come la forma e la grandezza, munite di movimento eterno connaturato. Ed è proprio questo continuo movimento che porta gli atomi ad aggregarsi e a separarsi, dando luogo alla nascita, alla trasformazione e alla morte di tutte le cose, che risultano quindi essere solo il frutto di combinazioni diverse. Naturalmente anche l’uomo è una realtà unicamente materiale e l’anima differisce dal corpo solo perché composta da atomi sottilissimi, mobilissimi, tondi e lisci. La diversità delle cose è spiegata in base alla varietà della forma, della grandezza e della disposizione degli atomi che si aggregano: da ciò segue che la spiegazione del mondo sta negli aspetti quantitativi e misurabili delle cose, gli unici dei quali deve occuparsi la scienza. Gli aspetti qualitativi, come il colore e il sapore, non sono proprietà delle cose, ma semplici percezioni soggettive, frutto esclusivo dei nostri sensi. Dice infatti Democrito: “Opinione il dolce, opinione l’amaro, opinione il caldo, opinione il freddo, opinione il colore: in realtà soltanto gli atomi e il vuoto”.
L’atomo rappresenta il componente fondamentale di tutta la materia presente nell’Universo, che risulta quindi costituito da un numero elevatissimo di queste piccolissime unità da cui dipendono tutte le caratteristiche degli elementi di cui sono fatti gli oggetti comuni, come l’idrogeno, il carbonio o il ferro. L’idea che la materia sia fatta di atomi è molto antica, ma il primo modello di struttura atomica (poi rivelatosi incompleto) fu proposto solo alla fine del 19° secolo scorso da Rutherford. Infatti già gli antichi filosofi greci immaginarono che ogni oggetto si potesse dividere in mattoncini piccolissimi, che chiamarono atomi, cioè “indivisibili”. Oggi sappiamo che la materia è veramente formata dagli atomi, grandi appena un centomilionesimo di centimetro, ma sappiamo anche che essi non sono affatto indivisibili, anzi, hanno una struttura interna ben definita. Infatti un atomo consiste di una piccolissima parte centrale, detta nucleo, centomila volte più piccola del diametro dell’atomo, che tuttavia contiene quasi tutta la sua massa. Attorno al nucleo si muovono gli elettroni, che sono delle particelle leggerissime e puntiformi portanti una piccola carica elettrica negativa. Da questa descrizione si evince come tutta la materia, anche quella più dura come un diamante, sia costituita da particelle formate in gran parte da vuoto. Questa peculiarità nasce dalle grandi forze che tengono uniti elettroni e nuclei. All’interno del nucleo, infatti, si trovano particelle circa duemila volte più pesanti dell’elettrone, i protoni, provvisti di una carica elettrica di segno positivo. Ogni atomo allo stato base contiene tanti elettroni quanti sono i protoni dentro il suo nucleo. Queste particelle attirano e trattengono vicini a sé gli elettroni, come il Sole attira e trattiene attorno a sé i pianeti. Tutto ciò avviene perché la natura è fatta in modo che cariche di segno opposto si attirano (per esempio un protone e un elettrone), mentre cariche di segno uguale (per esempio due elettroni) si respingono. Va detto che nel nucleo non ci sono solo protoni, ma anche altre particelle, dette neutroni, che non hanno carica elettrica, ma hanno una massa leggermente superiore ai protoni. In un atomo, il numero di protoni (e quindi quello degli elettroni, se l’atomo è neutro) è detto numero atomico e si indica con la lettera Z, mentre il numero dei protoni sommato a quello dei neutroni prende il nome di numero di massa e si indica con la lettera A. Per gli atomi più leggeri, il numero di neutroni è uguale a quello dei protoni. Ma al crescere del numero atomico il numero dei neutroni aumenta più velocemente di quello dei protoni. Per esempio un atomo di piombo ha numero atomico 92 ma numero di massa di 207: nel piombo i protoni sono 92, mentre i neutroni sono 115. Per ogni elemento esistono atomi che pur avendo lo stesso numero di protoni (e non potrebbe essere diversamente), hanno un diverso numero di neutroni, cioè con diverso numero di massa. Sono gli isotopi, termine anche questo derivante dal greco e che significa “stesso luogo”, proprio ad indicare che questi atomi appartengono a uno stesso elemento. Facciamo un esempio: l’idrogeno è una miscela di tre isotopi, chiamati rispettivamente prozio, deuterio e trizio. I tre isotopi hanno un protone ciascuno ma differiscono per il numero di neutroni. Il prozio non ha neutroni, il deuterio ne ha uno e il trizio ne ha due. Ciascun elemento è costituito da una miscela di isotopi in percentuale sempre costante. La teoria atomica di Democrito per molti secoli è stata respinta perché contraddiceva gli insegnamenti di Aristotele (384 – 322 a.C.). Se l’atomo è il pieno di essere e per esistere richiede il vuoto, cioè il non-essere, la questione su cui si dibatterono i filosofici greci è se può esistere il non-essere. Per Aristotele lo spazio doveva essere pieno di materia per poter trasmettere gli effetti del movimento da un corpo all’altro. Egli sosteneva che la natura aborre il vuoto e che quando da un luogo veniva tolta tutta la materia, producendo appunto il vuoto, immediatamente nuova materia si precipitava a colmarlo (concetto dell’“horror vacui”). Quindi la materia doveva necessariamente avere una struttura continua, cioè poteva essere suddivisa all’infinito senza perdere le sue caratteristiche. La teoria di Aristotele è stata accettata per molti secoli, ma a partire del XIX secolo, grazie a numerosi esperimenti, gli scienziati hanno dimostrato l’esistenza degli atomi.
Infatti nel 1808 John Dalton (chimico e fisico inglese) fu il primo ad adottare un approccio scientifico allo studio dell’atomo e, prendendo spunto dalla teoria di Democrito, fondò la teoria atomica moderna. Avvalendosi degli studi  di Lavoisier e Proust, nella sua teoria egli diede una spiegazione ai fenomeni chimici con la formulazione della legge delle proporzioni multipla.
La teoria afferma che:
  • la materia è costituita da atomi, particelle piccolissime, sferiche, indivisibili e indistruttibili;
  • gli atomi sono la parte più piccola di un elemento;
  • gli atomi di uno stesso elemento sono uguali tra loro e hanno la stessa massa;
  • gli atomi dei diversi elementi sono differenti e non hanno la stessa massa;
  • in una reazione gli atomi non sono né creati né distrutti, né trasformati in altri elementi; restano inalterati ma si aggregano in modo diverso, conservandosi interi nel passaggio da un composto all’altro.
Da tale teoria deriva la definizione di atomo come “la più piccola parte in cui è possibile scomporre un elemento conservando le sue proprietà chimiche e fisiche”. Quella di Dalton può essere considerata in assoluto come la prima teoria atomica perché è stata la prima a essere ricavata da studi sperimentali. Essa rispettava i criteri del metodo scientifico in quanto dava una giustificazione alle esperienze, però la prova della reale esistenza degli atomi avvenne solo un secolo più tardi grazie a nuove ricerche. Verso la fine del XIX secolo (precisamente nel 1897), il fisico britannico J.J. Thomson, studiando il passaggio della corrente elettrica nei gas rarefatti (utilizzando tubi di Crookes), dimostra che i raggi emessi dal catodo (raggi catodici) sono particelle di carica negativa. Gli atomi si comportano come particelle neutre, per cui la presenza di particelle dotate di carica negativa può essere spiegata solamente ipotizzando che esistano nell’atomo anche particelle positive. Thomson propone perciò un modello di atomo che prevede un’omogenea distribuzione di particelle positive e negative, sparse come le uvette e i canditi nel panettone (modello atomico “a panettone” o “plum pudding model”, visto che il dolce natalizio inglese con le uvette è il pudding e non il nostro panettone).
Nel 1913 il fisico neozelandese Ernest Rutherford propone un nuovo modello di atomo: il modello planetario. Hans Geiger e Ernest Marsden, sotto la guida di Rutherford, eseguirono nel 1911 un esperimento che consisteva nel bombardare una sottile lamina di oro con particelle alfa (dotate di una doppia carica positiva perché costituite da due protoni e due neutroni), prodotte da un materiale radioattivo. Le particelle alfa erano dotate di un’energia cinetica sufficiente a permettere loro di passare attraverso la lamina, come previsto dallo stesso Thomson. L’esperimento, invece, dimostrava il contrario: la maggior parte delle particelle emesse dalla sorgente radioattiva attraversava la lamina di oro ma, sorprendentemente, alcune particelle venivano deviate e altre addirittura respinte dalla lamina. Rutherford manifestò il proprio stupore con la storica frase: “È come sparare un proiettile da 14 pollici contro un foglio di carta e vederselo tornare indietro”. Interpretando in modo molto acuto l’esperimento, egli comprese che l’atomo era sostanzialmente uno spazio quasi del tutto vuoto. La maggior parte delle particelle alfa aveva attraversato la lamina d’oro perché gli atomi che la costituivano dovevano presentare una parte molto densa, il nucleo, molto più piccolo (circa 10.000 volte) dell’atomo stesso. Infatti, la gran parte delle particelle alfa che attraversava la lamina non colpiva il nucleo, quelle poche che lo facevano venivano deviate o respinte. Rutherford propone perciò il modello atomico planetario, simile al sistema solare: un nucleo denso, dotato di carica elettrica positiva, attorno al quale ruotano su orbite circolari, come i pianeti intorno al Sole, gli elettroni, particelle dotate di carica elettrica negativa (anche questo modello non prevede la presenza dei neutroni, che verranno scoperti da Chadwick solamente nel 1932). Il movimento di ogni elettrone scaturisce dall’equilibrio tra la forza centrifuga e la forza di attrazione elettrostatica verso il nucleo. Il modello di Rutherford tuttavia presentava una forte contraddizione rispetto alla fisica classica: la teoria elettromagnetica prevede, infatti, che quando una carica subisce un’accelerazione emette energia sotto forma di onde elettromagnetiche. Gli elettroni, essendo cariche elettriche in movimento, avrebbero dovuto emettere una radiazione elettromagnetica, perdere gradualmente energia e precipitare sul nucleo, cosa che nella realtà non si verifica. Quindi il modello di Rutherford da un lato giustificava la struttura dell’atomo e dall’altra ne decretava l’instabilità. Questa contraddizione venne risolta nel 1913 dal fisico danese Niels Bohr, che riprese teorie proposte in quegli anni da Planck e Einstein sulla quantizzazione dell’energia. All’inizio del ’900 Max Planck e Albert Einstein avevano chiarito, infatti, la doppia natura della luce: ondulatoria (che interpretava la luce come un’onda elettromagnetica) e corpuscolare (che vedeva la luce come un insieme di pacchetti di energia elettromagnetica, chiamati fotoni). Nel 1913 Bohr incominciò a pensare a una connessione tra l’emissione di luce da parte degli atomi e gli elettroni che ruotavano attorno al nucleo. Se si fa attraversare un prisma di vetro dalla luce bianca, prodotta da un filamento incandescente, si ottiene uno spettro continuo. Se si analizza, invece, la luce emessa da un gas rarefatto (come una lampada a idrogeno a bassa pressione) sottoposto a una scarica elettrica, si ottiene uno spettro a righe (discontinuo). Lo spettro di assorbimento, invece, rivela le lunghezze d’onda che vengono assorbite da un gas attraversato da una radiazione elettromagnetica: ogni atomo assorbe radiazioni di particolare lunghezza d’onda, lasciando passare le radiazioni di altra lunghezza d’onda. Si realizza così uno spettro di assorbimento caratterizzato dalla presenza di linee scure di assorbimento in corrispondenza delle lunghezze d’onda delle radiazioni assorbite: in pratica è l’opposto dello spettro di emissione. Gli atomi del gas assorbono radiazioni di una frequenza ben determinata. Ogni atomo emette uno spettro caratteristico e ha un opposto spettro di assorbimento. Quando la luce colpisce un atomo, esso assorbe fotoni di una precisa lunghezza d’onda e ogni fotone assorbito cede la sua energia a un elettrone, che può perciò passare a un livello energetico più alto. Quando un elettrone eccitato e spostato su un’orbita più esterna torna a un livello energetico più basso emette energia sotto forma di un fotone di una particolare lunghezza d’onda. Nel modello di Bohr l’elettrone non collassa sul nucleo, ma ruota senza emettere energia lungo orbite circolari prefissate, cioè gli stati stazionari. Osservando gli spettri di emissione e di assorbimento dell’atomo di idrogeno, Bohr propone un modello atomico (planetario come quello di Rutherford, ma a orbite quantizzate, valido solo per l’atomo di idrogeno), che si basa sui seguenti punti:
  1. l’elettrone percorre solo determinate orbite circolari quantizzate, nelle quali ruota senza assorbire né emettere energia (orbite stazionarie);
  2. l’elettrone assorbe energia solo se salta da un’orbita a un’altra di livello energetico maggiore;
  3. se l’elettrone torna a un livello di energia minore l’atomo emette energia, sotto forma di fotoni;
  4. l’energia della luce, emessa o assorbita, è uguale alla differenza di energia delle due orbite;
  5. ogni salto è rivelato da una riga dello spettro.
L’ipotesi di Bohr sulla struttura dell’atomo spiega perché gli spettri di emissione degli atomi sono spettri discontinui, a righe: ogni riga corrisponde a un ben determinato valore di energia, che a sua volta corrisponde alla differenza di energia fra due orbite. Gli elettroni ruotano attorno al nucleo, in un sistema fisico, nel quale l’energia non varia in modo continuo ma per quantità finite (orbite quantizzate). L’energia dell’elettrone può assumere solo valori ben definiti, identificati da un numero, detto numero quantico principale n, che può avere un valore intero, compreso tra 1 e 7. Esistono attorno al nucleo 7 livelli energetici differenti. Il modello di Bohr si presta bene all’interpretazione della struttura dell’idrogeno, ma risulta inadeguato per spiegare la struttura di atomi con più elettroni. Negli spettri di questi atomi si rilevano infatti raggruppamenti di righe vicinissime fra loro, che non si riescono a interpretare in base al modello di Bohr. I limiti del modello di Bohr nascono dall’inadeguatezza delle leggi della meccanica classica, valide per corpi macroscopici, ma non adatte a particelle microscopiche come gli elettroni e i protoni. Nel 1915 il fisico tedesco A.J. Sommerfeld, applicando agli elettroni le leggi di Keplero, suppose che l’elettrone si muovesse descrivendo orbite ellittiche in cui il nucleo occupava uno dei due fuochi. Il concetto di orbita lascia il posto al concetto di orbitale atomico. La meccanica quantistica dimostra che non è possibile definire la traiettoria di un elettrone, che ha un movimento delocalizzato. Infatti, il principio di indeterminazione di Heisenberg afferma che di una particella come l’elettrone non si possono conoscere, simultaneamente, la posizione e la velocità, in un preciso istante. Il fisico tedesco Max Born definisce, grazie alle funzioni d’onda, l’orbitale atomico come una regione dello spazio attorno al nucleo in cui è possibile trovare con elevatissima probabilità (circa il 95%) l’elettrone in determinato istante. E’ possibile definire i diversi stati in cui un elettrone si può trovare nell’atomo grazie alla funzione d’onda, che è la soluzione matematica dell’equazione di Schrödinger, espressa attraverso i numeri quantici, i quali, associati ai diversi orbitali, ne stabiliscono l’energia, la forma e l’orientamento nello spazio dell’orbitale. Le diverse funzioni d’onda di un atomo si esprimono indicando i valori dei tre numeri quantici: n, l, m; a ogni terzetto di numeri quantici corrisponde un orbitale ben preciso

 

LA TAVOLA PERIODICA DEGLI ELEMENTI
La Tavola Periodica degli elementi è uno dei capolavori della scienza in quanto in un unico documento è compresa buona parte delle nostre conoscenze di chimica. Intorno alla metà del XIX secolo, la gran quantità di dati accumulati relativi alle proprietà chimiche e fisiche degli elementi già conosciuti, fece nascere la necessità di trovare un sistema per organizzare e per descrivere tutte queste informazioni. Classificare gli elementi nasce quindi dal bisogno di chiarire e di analizzare con maggior esattezza le proprietà e le caratteristiche degli elementi stessi, ad esempio perché alcuni di essi reagiscono in un determinato modo, mentre altri non mostrano alcun tipo di reattività.
La storia del sistema periodico ha inizio più di centocinquanta anni fa e da allora la sua forma originaria non è stata sostanzialmente modificata, subendo solo aggiustamenti e miglioramenti con il progresso scientifico. Neanche le moderne teorie della relatività e della meccanica quantistica hanno scalfito le basi fondamentali dello schema originario. La scoperta del sistema periodico di classificazione degli elementi (il termine periodico esprime il fatto che gli elementi mostrano andamenti regolari nelle loro proprietà chimiche a intervalli regolari) rappresenta il punto di arrivo di una lunga serie di studi che ha coinvolto un grande numero di scienziati. Ufficialmente la sua nascita si fa risalire al 17 febbraio 1869, quando il chimico russo Dimitrij Ivanovic Mendeléev, spinto da motivi didattici, completò la prima tavola periodica, che gli consentì di formulare la legge periodica, la quale afferma che la disposizione degli elementi secondo il peso atomico crescente mostra una evidente periodicità delle loro proprietà. In verità Mendeléev non fu l’unico a tentare di mettere ordine fra gli elementi noti. Tra i primi c’è il chimico tedesco Döbereiner, il quale propose la teoria delle triadi, secondo la quale alcuni elementi conosciuti (ad esempio il litio-sodio-potassio e il cloro-bromo-iodio) in base alle loro affinità chimiche potevano essere disposti in gruppi di tre. Egli notò che le proprietà dell’elemento centrale erano intermedie a quelle dei altri due elementi e che il peso atomico era vicino alla media dei pesi del primo e del terzo membro della triade. Nel 1864 il chimico inglese Newlands suggerì un sistema di classificazione basato sul peso atomico. Egli, infatti, si accorse che, disponendo gli elementi per peso atomico crescente, ad ogni otto di essi si ripetevano proprietà simili a cadenza regolare. Una caratteristica che l’ideatore chiamò legge delle ottave, dall’analogia con la scala musicale costituita da sette note, con l’ottava che assomiglia alla prima e inizia una nuova serie di sette. Newlands dispose gli elementi in colonne verticali di sette unità e quelli che si trovavano nella stessa riga orizzontale presentavano proprietà simili. La proposta fu accolta con molta diffidenza e sollevò molte contestazioni come ad esempio la mancanza di spazi vuoti nella tavola proposta, che non avrebbe permesso l’aggiunta di eventuali nuovi elementi. Le regolarità da lui evidenziate furono quindi ritenute semplici coincidenze. Nonostante le critiche, questa classificazione fu la prima ad usare una sequenza di numeri ordinali (peso atomico) per classificare gli elementi. Nel 1860 il chimico tedesco Meyer realizzò una tavola nel quale alcune proprietà fisiche relative ai singoli elementi, come a esempio il volume atomico, si ripetevano con regolarità dopo ogni gruppo di sette elementi. Egli presentò il suo lavoro nel 1870, un anno dopo che il chimico russo Mendeléev aveva pubblicato un lavoro analogo. Questo determinò anche un’accesa discussione tra i due scienziati sulla priorità della scoperta. Alla fine il merito venne attribuito a Mendeléev invece che a Meyer non soltanto grazie alla data di pubblicazione, ma anche per l’uso straordinario che il chimico russo seppe fare del suo lavoro. Infatti, con i dati sperimentali di cui disponeva, riuscì ad ordinare gli elementi chimici noti a quel tempo in modo logico e coerente. A differenza di Meyer che aveva preferito utilizzare parametri fisici come il volume atomico, la densità, il punto di fusione per mettere in evidenza la periodicità, Mendeléev diede più importanza alle somiglianze chimiche, come la reattività nei confronti degli altri elementi, il comportamento acido-base, la natura dei sali. La disposizione dei 63 elementi noti in righe, utilizzando come criterio ordinatore il peso atomico crescente, presentava anche spazi vuoti dove avrebbero dovuto essere disposti elementi non ancora conosciuti. Mendeléev ebbe il merito di predire l’esistenza di elementi non ancora scoperti, che chiamò provvisoriamente eka-alluminio, eka-boro ed eka-silicio (eka = sotto). Si trattava del gallio, dello scandio e del germanio, che scoperti rispettivamente nel 1875, nel 1879 e nel 1885, dimostrarono di possedere quasi fedelmente le proprietà che Mendeléev aveva per loro presunto. Il metodo usato da Mendeléev si basava sul raffronto delle proprietà di tutti i vicini di un dato elemento nella tavola periodica. Un elemento è circondato da un massimo di otto elementi, così appartiene a quattro triadi (orizzontale, verticale e due diagonali). Un’analisi dell’andamento nelle proprietà di ogni triade fornisce un modo per stimare la proprietà sconosciuta desiderata. La tavola periodica non era più, quindi, soltanto un ordinamento di elementi in un formato compatto, che identificava gli elementi, le loro proprietà e il loro comportamento, ma anche uno strumento per desumere le proprietà degli elementi sconosciuti da quelle degli elementi noti che li circondano.
Nel 1894 W. Ramsay e lord Rayleigh scoprirono l’argon, un gas detto nobile perché non mostra interazione con altri elementi per formare composti. Per collocare questa inaspettata sostanza nel sistema periodico, Mendeléev propose di aggiungere una nuova colonna, indicata come gruppo zero. Ciò implicava l’esistenza di altri gas inerti, che furono puntualmente scoperti tra il 1895 e il 1898 (l’elio, il neon, il krypton e lo xeno) e che si collocavano precisamente nelle posizioni previste nella tavola sulla base del loro peso atomico, ad eccezione dell’argon che doveva essere scambiato con il potassio. Questa anomalia, insieme alle altre rappresentate dalle coppie iodio-tellurio e cobalto-nichel, costituiva un punto critico della tavola di Mendeléev, in quanto, se ordinate in funzione della massa atomica, si trovavano invertite come posizione rispetto a quella che avrebbero dovuto occupare in base alle loro proprietà chimiche. Questo problema fu risolto nel 1913 grazie agli esperimenti di Henry G.J. Moseley, al quale si deve la scoperta di quella quantità fondamentale che aumentava regolarmente nel passare da un elemento all’altro. Essa fu chiamata numero atomico da E. Rutherford nel 1920 e oggi è definita come il numero di protoni presenti nel nucleo dell’atomo (indicato con il simbolo Z).
In seguito ai risultati di questi lavori, la legge periodica fu corretta utilizzando il numero atomico come principio ordinatore fondamentale del sistema periodico. Questo cambiamento determinò importanti effetti sul sistema periodico. In primo luogo risolse il problema delle inversioni tra quelle coppie di elementi nelle quali non c’era corrispondenza fra la successione delle proprietà chimiche e quella del peso atomico. Queste inversioni erano determinate dalla composizione isotopica degli elementi, cioè dal fatto che di uno stesso elemento potevano esistere atomi di massa diversa, circostanza dovuta alla presenza di un diverso numero di neutroni pur in presenza di uno stesso numero di protoni. Inoltre, venne stabilito in modo definitivo che nell’intervallo tra idrogeno e uranio esistesse un numero limitato e definito di elementi. Moseley osservò alcune lacune nella sequenza dei pesi atomici di 43 (tecnezio), 61(promezio) e 72 (afnio) e previde che questi elementi sarebbero stati trovati. Questa ipotesi fu prontamente dimostrata, benché solo l’afnio sia presente in natura in quantità rilevanti, mentre gli altri due elementi sono stati sintetizzati artificialmente. Infine venne risolta anche la questione del limite inferiore del sistema periodico: dal momento che l’idrogeno possiede la più bassa carica nucleare, non possono esistere elementi che lo precedono nella serie naturale. La comprensione della struttura atomica ha permesso di spiegare teoricamente la periodicità degli elementi chimici. Nel 1913 il fisico Niels Bohr propose un modello quantistico della struttura atomica. In questo modello gli elettroni occupano una serie di gusci concentrici che circondano il nucleo. Il guscio più interno poteva contenere solo due elettroni: con un elettrone la struttura corrispondeva all’idrogeno, con due elettroni a quella del gas nobile elio. Quando il primo guscio risultava completo, cominciava a riempirsi il guscio successivo, il quale, potendo contenere al massimo otto elettroni, determinava le strutture corrispondenti ai successivi otto elementi fino al gas neon (numero atomico 10). Bohr quindi ipotizzò che gli elementi dello stesso gruppo del sistema periodico avessero la stessa configurazione elettronica esterna e che le proprietà chimiche di un elemento dipendessero in gran parte dalla disposizione degli elettroni del guscio esterno (detto anche livello di valenza). Questo riusciva a spiegare anche il comportamento chimico dei gas nobili, i quali, avendo una configurazione esterna completa, si presentavano stabili e poco disposti a formare composti con altri elementi. Infatti, la maggior parte degli elementi tende a reagire e a formare composti poiché in questo modo può completare la propria configurazione elettronica esterna (regola dell’ottetto). Negli anni Venti W. Heisenberg e E. Schrödinger introdussero altre innovazioni nel modello atomico, giungendo alla meccanica quantistica attuale, ma esse non hanno condizionato in maniera sostanziale il sistema periodico. In questo modello gli elettroni non sono localizzati su gusci intorno al nucleo, ma delocalizzati intorno ad esso in zone di spazio, dette orbitali, nei quali hanno alta probabilità di trovarsi.

 

I LEGAMI CHIMICI
In natura le sostanze costituite da atomi isolati sono estremamente rare (tra queste i gas nobili e i metalli allo stato aeriforme e ad alta temperatura). Gli atomi isolati, infatti, sono in generale energeticamente instabili e tendono spontaneamente ad aggregarsi tra di loro attraverso reazioni chimiche per formare molecole e aggregati cristallini in modo da acquistare una maggiore stabilità (o, come si dice, in modo da stabilizzarsi nello stato energetico più basso). Secondo la teoria elettronica della valenza, gli atomi tendono infatti a legarsi tra loro per raggiungere una configurazione elettronica più stabile. La formazione del legame chimico (che rappresenta proprio la forza attrattiva che si stabilisce tra due o più atomi, uguali o diversi, permettendo loro di unirsi formando molecole o aggregati cristallini) coinvolge gli elettroni periferici (cioè quelli che occupano il livello energetico più esterno), detti elettroni di valenza. Nel corso di questo processo gli elettroni possono essere trasferiti da un atomo all’altro, oppure essere messi in comune, dando così luogo a diversi tipi di legame, i quali sono fondamentalmente tre: legame ionico, dovuto ad attrazioni elettrostatiche tra ioni di carica opposta, legame covalente, dovuto alla condivisione di elettroni tra atomi, legame metallico, dovuto all’attrazione tra elettroni di valenza e ioni positivi. La valenza è la capacità di combinazione di un elemento e corrisponde al numero di elettroni che il suo atomo mette in gioco nella formazione di legami chimici. La valenza di un elemento è perciò determinata dai suoi elettroni di valenza (un elemento viene detto monovalente, bivalente, trivalente ecc. a seconda della sua capacità di formare uno, due, tre ecc. legami chimici). Come abbiamo già detto, i gas nobili sono molto stabili: essi presentano una configurazione esterna costituita da otto elettroni (a eccezione dell’elio, che, possedendo due soli elettroni, presenta il livello più esterno comunque completo). Sulla base di questa constatazione, nel 1916 il chimico statunitense Gilbert Newton Lewis enunciò la regola dell’ottetto, la quale afferma che, attraverso la formazione di legami chimici, ogni atomo tende ad acquistare o a perdere o a mettere in compartecipazione elettroni fino a raggiungere una configurazione elettronica esterna costituita da otto elettroni (uguale cioè a quella del gas nobile più vicino nella tavola periodica). La regola dell’ottetto è valida per la maggior parte degli elementi rappresentativi, cioè quelli dei sottogruppi A (da I A a VII A), mentre non è osservata dai metalli di transizione (sottogruppi B) che raggiungono configurazioni stabili differenti da quella dell’ottetto. La stabilità che gli atomi acquistano quando si uniscono per mezzo di un legame chimico è espressa dall’energia di legame, definita come l’energia necessaria per rompere un dato legame chimico (misurata in chilocalorie/mole o chilojoule/mole). L’energia di legame è in stretta relazione con le caratteristiche energetiche degli atomi coinvolti, definite dall’energia di ionizzazione (energia minima richiesta per allontanare da esso un elettrone e portarlo a distanza infinita) e dall’affinità elettronica (ammontare di energia scambiata, ovvero rilasciata o assorbita, quando un elettrone è aggiunto ad un atomo neutro isolato in fase gassosa per formare uno ione gassoso con una carica di −1). La distanza media a cui si trovano due nuclei uniti da un legame chimico è detta distanza di legame. Andiamo ora a osservare più da vicino i tre tipi di legame fondamentali. Si definisce legame ionico la forza di attrazione elettrostatica che si stabilisce tra due ioni di carica opposta. Il legame ionico si forma quindi tra atomi o gruppi di atomi tra i quali sia avvenuto uno scambio di elettroni: l’atomo o il gruppo atomico che cede elettroni si trasforma in ione positivo (catione), l’atomo o il gruppo atomico che acquista elettroni si trasforma in ione negativo (anione). Il legame ionico si instaura facilmente tra elementi che possiedono un’elevata differenza di elettronegatività (superiore a 1,7) ed è tipico dei sali e di molti composti che formano cristalli. Ne è un esempio quello implicato nella formazione di cloruro di sodio (il comune sale da cucina), NaCl: ognuno dei due ioni Na+ e Cl assume la configurazione elettronica esterna a ottetto, caratteristica dei gas nobili (il sodio assume la configurazione del neon, il cloro quella dell’argo). Si definisce legame covalente quello che si realizza mediante la condivisione di una o più coppie (o doppietti) di elettroni da parte di due atomi, che in tal modo acquistano la configurazione elettronica esterna stabile (ottetto). A seconda del numero di coppie di elettroni condivise, si formano legami covalenti singoli, doppi o tripli. I legami sono rappresentati con formule di struttura e formule di Lewis. Il legame covalente si distingue in: legame covalente puro, o omopolare, legame covalente polare, legame dativo. Il legame covalente puro, od omopolare, si stabilisce tra atomi dello stesso elemento. Per esempio nell’ossigeno molecolare O2 si forma un doppio legame chimico, poiché ogni atomo di ossigeno ha due elettroni spaiati da mettere in comune. Il legame covalente polare si stabilisce tra atomi di elementi differenti tra cui esista una differenza di elettronegatività è minore o uguale a 1,7. La coppia di elettroni sarà attratta dall’atomo più elettronegativo, che acquisterà una parziale carica negativa (δ), bilanciata da una parziale carica positiva (δ+) sull’atomo meno elettronegativo. La molecola costituisce un dipolo elettrico (in quanto è sede di un momento dipolare). Tuttavia, nel caso di molecole con più di due atomi, la presenza di legami polari non è sufficiente a stabilire se essa ha un momento dipolare, perché ciò dipende sia dai doppietti liberi eventualmente presenti, sia dalla struttura geometrica della molecola. Il legame covalente dativo si stabilisce quando la coppia di elettroni di legame proviene da uno solo dei due atomi (atomo donatore) e viene accolta dall’altro atomo (atomo accettore). Per esempio, nell’acido clorico, HClO3, l’atomo di cloro (donatore) lega con legame dativo due atomi di ossigeno (accettori) (il legame dativo si indica con una freccia à). Un caso particolare di legame dativo è il legame di coordinazione, presente nello ione ammonio, NH4+ (formato da ammoniaca e dallo ione H+), e nello ione idronio H3O+ (formato dall’acqua e dallo ione H+). Nei metalli si realizza il legame metallico, cioè un particolare legame chimico che consiste nell’attrazione elettrostatica tra gli elettroni di valenza e gli ioni positivi metallici. Gli elettroni di valenza sono delocalizzati, cioè non legati ad uno specifico atomo: essi si distribuiscono lungo la superficie del metallo, come a formare una ‘nube elettronica’ che avvolge tutti gli ioni dell’elemento. La presenza di questa ‘nuvola elettronica’ permette il massimo avvicinamento degli ioni senza che sorgano forze repulsive che li allontanino, implicando un’elevata densità. Gli elettroni mobili, inoltre, spiegano proprietà quali l’elevata conducibilità termica ed elettrica: poiché sono liberi di muoversi, essi facilitano i processi di diffusione del calore e di energia elettrica. Il legame metallico appartiene alla famiglia dei legami forti (assieme al covalente e allo ionico): le energie di legame elevate (tra ione e ione) implicano alte temperature di fusione ed ebollizione. È non direzionale, ovvero ha la proprietà di essere uguale nelle tre direzioni coordinate; non ci sono, perciò, preferenze legate alla direzione per instaurare il legame chimico tra gli ioni dell’elemento né particolari restrizioni nelle posizioni relative da loro occupate. La conseguenza immediata dell’adirezionalità è l’inalterazione delle interazioni di legame in seguito allo slittamento di due piani reticolari. Se, ad esempio, esercitassimo una forza di taglio su di un piano reticolare, essa produrrebbe una deformazione del metallo, ma non una rottura del reticolo cristallino. In altre parole, l’unico effetto realizzato da tale forza è uno scorrimento del piano reticolare lungo il quale essa è applicata rispetto al piano reticolare posto al di sotto. Il metallo si deforma a causa dello scorrimento, ma non si spacca perché in seguito ad esso non nascono forze repulsive (gli ioni sono tutti positivi, gli elettroni di valenza sempre delocalizzati, per cui lo stato chimico resta invariato) e quindi il legame persiste. Oltre ai tipi di legame appena osservati, esistono poi delle interazioni attrattive tra molecole che, pur essendo meno forti di un legame chimico fondamentale, sono importanti perché responsabili, per esempio, dello stato fisico delle sostanze. Queste interazioni intramolecolari sono definite legami secondari o deboli.

LA NOMENCLATURA DEI COMPOSTI CHIMICI

Per gli studenti che per la prima volta si avventurano nello sterminato, e piuttosto complicato, campo della nomenclatura chimica, può non essere facile orientarsi e impadronirsi in breve tempo delle competenze necessarie per arrivare a determinare formula e nome dei composti. Le cose sono anche complicate dal fatto che esistono più modi di assegnare i nomi ai composti chimici. Il “nome ufficiale” è il nome IUPAC. La IUPAC, acronimo di International Union of Pure and Applied Chemistry (in italiano Unione Internazionale di Chimica Pura ed Applicata), è una organizzazione non governativa che si occupa, tra le altre cose, di stabilire in modo univoco e semplice, i nomi per tutte le sostanze chimiche. La nomenclatura adottata dalla IUPAC è semplice e razionale e identifica i composti a prescindere dalla loro caratteristiche. VEDI ALLEGATO.

Nomenclatura composti chimici inorganici-Nunzio Perreca

 

NOMENCLATURA DEGLI IONI

Nomenclatura degli Anioni – Regole di nomenclatura
La nomenclatura IUPAC è ufficialmente riconosciuta e utilizzata oggigiorno, ma alcuni composti sono meglio noti col nome dettato dalla nomenclatura tradizionale. Altri ancora vengono identificati con un nome comune che esula da entrambe le regole codificate. Farò menzione solo dei più importanti. La nomenclatura richiede la conoscenza del numero di ossidazione
Introduzione sugli Anioni
Gli ioni sono atomi o complessi elettricamente carichi, suddivisibili in anioni e cationi. I primi hanno una carica netta negativa, i secondi positiva. La comparsa degli anioni è principalmente dovuta a reazioni di dissociazione in ambiente acquoso di idracidi e ossiacidi. Scendendo nel dettaglio, una reazione di dissociazione può essere schematizzata in questo modo:
HnX (idracido) → nH+ + Xn- (anione)
HnXbO(ossoacido) → nH+ + (XbOc)n- (ossianione)
Lo ione Hin realtà non esiste perché è estremamente instabile. Questa è una semplificazione grafica adottata in chimica per rappresentare il catione ossonio H3O+, che avremmo ottenuto se avessimo bilanciato la reazione aggiungendo H2O, caratteristica dell’ambiente acquoso. In chimica l’Hè chiamato protone e rappresenta, pertanto, il catione chiamato ossonio (o, più frequentemente, idronio). VEDI ALLEGATO.

Nomenclatura degli Ioni

 

LA CONFIGURAZIONE ELETTRONICA
L’atomo rappresenta il costituente fondamentale della materia. Esso è costituito da particelle subatomiche più piccole: protoni, dotati di carica elettrica positiva; neutroni, privi di carica elettrica; elettroni, dotati di una carica elettrica negativa che in valore assoluto è uguale a quella del protone. Le particelle con massa maggiore, protoni e neutroni, sono localizzate in un nucleo molto piccolo che contiene le cariche positive e nel quale è concentrata tutta la massa dell’ atomo. Gli elettroni, con massa minore (quindi trascurabile), circondano il nucleo e occupano la maggior parte del volume dell’atomo.  Le proprietà chimiche degli elementi e delle molecole dipendono in gran parte dagli elettroni. L’atomo viene quindi definito come la più piccola particella di un elemento che conserva le proprietà chimiche caratteristiche di quell’elemento. VEDI ALLEGATO.

La configurazione elettronica

 

CHIMICA ORGANICA

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Al 1

Al 2

Al 3

Al 4

Al 5

Al 6

Al 7

Al 8

Al 9

Al 10

Al 11

Gli idrocarburi

GF1

GF2

GF3

GF4

GF5

GF6I GRUPPI FUNZIONALI

Esperimento