Festeggiare con amici e parenti il raggiungimento della maggiore età o di un altro importante obiettivo è una pratica che il genere umano attua ormai da moltissimi anni, quello che invece sorprende è apprendere che questa abitudine è attiva anche presso altre specie viventi. Le formiche, per esempio, festeggiano il passaggio all’età adulta “offrendo da bere” all’intera colonia, compresi i nuovi nati. Proprio questo emerge da un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica Nature, che documenta per la prima volta l’esistenza di una “bevuta rituale”, della quale al momento non si conosce ancora lo scopo. La scoperta è nata grazie allo studio guidato dall’etologo della Rockefeller University Orli Snir, il quale, mentre studiava gli effetti dell’isolamento sociale sulla formica Ooceraea biroi, ha notato che gli adulti della colonia leccavano il corpo delle pupe, impregnate da un liquido lattiginoso, in seguito rivelatosi un mix di enzimi digestivi e di resti di cuticola (il “rivestimento esterno” degli insetti). Snir ha così cominciato a scomporre la scena per cercare di approfondire la questione. Innanzitutto ha scoperto che le pupe non asciugate, se isolate dalla comunità, muoiono annegate nel loro stesso fluido senza l’aiuto degli altri esemplari che lo leccano. Alcune pupe ancora bagnate sono state invece inserite in un ambiente non sterile, dove sono state colpite da un’infezione fungina. La conclusione è stata che il liquido esiste per essere leccato via, per cui la pupa ha bisogno dell’aiuto degli adulti. Il team di ricerca ha inoltre osservato che la produzione di questa specie di “latte” avviene durante l’ultimo passaggio di sviluppo che porta la pupa a diventare adulta e che più o meno nello stesso periodo nella colonia dalle uova emergono nuove pupe, che hanno bisogno di attenzioni. Ebbene, anche le nuove nate bevono il latte delle sorelle maggiori e muoiono nel giro di pochi giorni se ne vengono private. Il liquido secreto dalle pupe, quindi, è uno strumento sociale, che crea una forma di dipendenza tra formiche adulte, pupe sul punto di maturare e individui neonati. Non si conoscono ancora gli effetti di questo liquido e non sappiamo neppure se questo rituale abbia un’influenza sulla struttura sociale delle formiche, ma i ricercatori hanno scoperto che questa abitudine non è esclusiva di Ooceraea biroi, ma è presente in almeno altre cinque specie appartenenti ad altrettante sottofamiglie diverse. Magari il futuro potrà dirci di più su questo particolare brindisi…
Il 30 Giugno scorso si è celebrato l’Asteroid Day, cioè la giornata mondiale degli asteroidi, evento istituito nel 2014 grazie a Brian May, astrofisico e chitarrista dei Queen, Russell Louis «Rusty» Schweickart, astronauta dell’Apollo 9, Danica Remy, presidente della Fondazione B612 e Grig Richters, regista e attivista politico. Il giorno non fu scelto a caso, ma per ricordare quello che è passato alla storia come «evento di Tunguska». Era infatti proprio il lontano 30 Giugno 1908 quando alle prime luci dell’alba (precisamente alle ore 7:14 locale) una fortissima esplosione distrusse duemila chilometri quadrati di foresta della Siberia orientale, nelle vicinanze del fiume Tunguska Pietrosa (Podkamennaja Tunguska). I ricercatori riuscirono a raggiungere il luogo solo dieci anni dopo: lo spettacolo di devastazione che si trovarono di fronte li sconvolse. Ancora oggi non sappiamo con certezza quale sia stata la causa. Tra le ipotesi, la più accreditata ritiene che un piccolo asteroide di circa 30-40 metri esplose attraversando l’atmosfera, ma i suoi frammenti non impattarono con la Terra, limitandosi a produrre un forte spostamento d’aria. Tuttavia, la totale assenza di testimoni ha fatto sì che l’episodio rimanesse avvolto nel mistero.
A seguito di questa esplosione, avvenuta a un’altitudine di 5–10 chilometri dalla superficie terrestre, si verificò l’abbattimento di 60-80 milioni di alberi su una superficie di 2.150 chilometri quadrati e venne generato un bagliore visibile a 700 km circa di distanza. Si stima che l’onda d’urto dell’esplosione avrebbe potuto essere assimilabile a un terremoto di grado 8 della scala Richter. Un’esplosione di questa portata è in grado di distruggere una grande area metropolitana.
Il rumore dell’esplosione fu udito a 1.000 chilometri di distanza. A 500 chilometri alcuni testimoni affermarono di avere udito un sordo scoppio e avere visto sollevarsi una nube di fumo all’orizzonte. A 65 chilometri il testimone Semen Semenov raccontò di aver visto in una prima fase il cielo spaccarsi in due e un grande fuoco coprire la foresta e in un secondo tempo notò che il cielo si era richiuso, udì un fragoroso boato e si sentì sollevare e spostare fino a qualche metro di distanza. L’onda d’urto fece quasi deragliare alcuni convogli della ferrovia transiberiana a 600 km dal punto di impatto. Si ritiene, in base ai dati raccolti, che la potenza dell’esplosione sia stata compresa tra 10 e 15 megatoni, equivalente a circa mille bombe di Hiroshima. Altri effetti si percepirono persino a Londra, dove, in quel frangente, pur essendo mezzanotte il cielo era talmente chiaro e illuminato da poter leggere un giornale senza l’ausilio della luce artificiale.
Dopo 115 anni quello che ancora non si è riusciti a capire è cosa causò quell’esplosione: una cometa o un asteroide? Il fatto è che non sono stati scoperti né un cratere né altri resti di un impatto. Chi sostiene che fu una cometa a impattare con la Terra ritiene che l’esplosione fu il risultato dell’evaporazione improvvisa, e quindi esplosiva, del nucleo cometario, ma stando a recenti ricostruzioni l’oggetto attraversò almeno 700 chilometri di atmosfera prima dell’esplosione. Nessuna cometa avrebbe potuto resistere così a lungo: un oggetto di quel genere esploderebbe dopo non più di 300 chilometri.
Chi invece sostiene che fu un asteroide, ipotizza che fosse così piccolo da esplodere attraversando l’atmosfera e che nessun frammento che fosse sufficientemente grande da produrre crateri arrivò fino a Terra. Accanto a questa, c’è un’altra ipotesi secondo la quale un frammento abbastanza grande sia in realtà arrivato fino a terra e che l’impatto ci abbia lasciato in eredità un piccolo lago che si trova nell’area. Tuttavia finora nessuno ha realizzato carotaggi o rilevamenti all’interno dell’invaso, per cui non è possibile affermare con certezza un tale svolgimento dei fatti. Il problema è che qualunque cosa sia avvenuta a Tunguska, è accaduta nel cuore selvaggio e disabitato della Russia centrale, a migliaia di chilometri da qualunque villaggio, per cui sul posto non c’è stato alcun testimone (si parla di tre morti), ma solo misteri e indizi da mettere insieme come tessere di un gigantesco puzzle.
Un nuovo modello di quell’evento che potrebbe però risolvere definitivamente la questione ci giunge grazie allo studio di un team di ricercatori coordinati da Daniil Khrennikov, dell’Università federale della Siberia, ed ha il vantaggio di non richiedere l’esistenza di una “cicatrice” sul terreno. Khrennikov e colleghi sostengono che l’esplosione fu causata da un asteroide che sfiorò la Terra con un angolo talmente piccolo che non attraversò l’atmosfera, ma “rimbalzò” su di essa per poi perdersi di nuovo nello spazio. Khrennikov ha affermato di essere convinto che l’evento di Tunguska sia stato causato da un asteroide ferroso che ha appena attraversato lo strato più esterno dell’atmosfera terrestre, per cui la Terra potrebbe essere sfuggita per pochissimo a un disastro catastrofico. Lo scenario descritto da questa teoria ben si adatta ai fatti. L’esplosione deve essere stata causata da un meteorite di ferro delle dimensioni di uno stadio da calcio o poco più, che si scaldò molto rapidamente attraversando l’alta atmosfera. Fu l’onda d’urto ad abbattersi al suolo, e il materiale che evaporò quasi istantaneamente dall’asteroide in quel breve passaggio causò l’esplosione che bruciò gli alberi. Il ferro vaporizzato si condensò in polvere che, arrivata al suolo, lasciò tracce debolissime, il che spiegherebbe anche la presenza di polveri anomale nell’alta atmosfera dell’Europa registrata dopo l’evento.
Se Khrennikov e colleghi hanno ragione, quella mattina la Terra ebbe un incidente spaziale fortunato che le evitò uncatastrofe planetaria, perché l’impatto diretto con un asteroide di circa 150 metri di diametro avrebbe devastato la Siberia, lasciando un cratere largo anche 3 chilometri, con effetti drammatici sulla biosfera e gravissime ripercussioni sulla civiltà moderna.
Questo libro è stato pensato, scritto e illustrato per aiutare gli insegnanti e i tutori ad avvicinare bambini e ragazzi al mondo della protezione delle piante, la scienza che si occupa della salute delle piante. Anche se indirizzato ad una fascia di età compresa tra gli 8 e i 12 anni, questo libro può essere utile anche per i ragazzi più grandi. Può essere considerato come un primo, semplice manuale di protezione delle piante, pensato in occasione dell’Anno Internazionale della Salute delle Piante.
La notizia è recente e io non ho trovato giorno più opportuno per poterne parlare. A quasi 26 anni dal passaggio di Hale-Bopp, di cui i lettori più adulti di sicuro ricorderanno la spettacolare luminosità, nei prossimi giorni una nuova cometa tornerà a far visita al Sistema solare e naturalmente anche alla Terra. Sto parlando di Neanderthal, una cometa che viene da molto lontano e che fa risalire il suo ultimo passaggio da queste parti a circa 50.000 anni fa, quando poterono ammirarla l’Homo neanderthalensis e l’Homo sapiens, che allora ancora convivevano in Europa (di lì a poco il primo si sarebbe definitivamente estinto). Denominata C/2022 E3 ZTF e scoperta appena lo scorso 2 Marzo dallo Zwicky Transient Facility in California, la cometa dei Neanderthal si è aggiudicata questo appellativo proprio grazie al suo lunghissimo periodo di rivoluzione attorno al Sole. A fine Gennaio infatti potrebbe diventare visibile a occhio nudo, ma già in questi giorni è nel mirino dei telescopi amatoriali degli astrofili di tutto il mondo, che stanno facendo a gara per ottenere lo scatto perfetto. Proprio come quello realizzato dallo statunitense Dan Bartlett e pubblicato dalla Nasa, il primo a mostrare in dettaglio la vaporosa chioma verde, la coda di ioni e la lunga coda di polveri a ventaglio. Il prossimo 12 Gennaio C/2022 E3 (ZTF) raggiungerà il punto di minima distanza dal Sole (166 milioni di chilometri), mentre il massimo avvicinamento alla Terra (42 milioni di chilometri) avverrà il primo febbraio 2023. Secondo l’Unione Astrofili Italiani, dal giorno della sua scoperta, la cometa ha incrementato notevolmente la sua luminosità e si trova a transitare nella costellazione della Corona Boreale nei cieli prima dell’alba. Nel periodo compreso fra il 17 Gennaio e il 5 Febbraio la declinazione sarà talmente elevata che la cometa diventerà circumpolare, per cui sarà visibile in cielo durante tutta la notte. Per iniziare a osservarla sarà sufficiente l’uso di un bonocolo, a patto che l’”avvistamento” avvenga in cieli scuri, privi (per quanto possibile) di inquinamento luminoso. Successivamente, e più precisamente a partire dal 24 Gennaio, la cometa potrebbe essere finalmente visibile anche a occhio nudo. Sebbene con le comete l’uso del condizionale sia quasi sempre un obbligo, tutti gli appassionati di astronomia, compresi quelli dell’ultim’ora, si tengano quindi pronti, perchè pare proprio che a breve ai nostri occhi comparirà un nuovo straordinario corpo celeste, che l’utilizzo di un piccolo strumento ottico per l’osservazione ingrandita non potrà fare altro che rendere ancora più emozionante.
Come promesso poche settimane fa, terminata la lunga disamina dei vulcani italiani attivi e quiescenti, l’ultimo articolo sull’argomento sarà dedicato a quegli edifici che non danno più manifestazioni evidenti ormai da molti anni. Infatti, come già detto all’inizio di questo lungo percorso, gli studiosi considerano attivi non solo i vulcani che eruttano in continuazione, come lo Stromboli, oppure a intermittenza come l’Etna, ma anche quei vulcani che pur non manifestando attività da decenni o secoli potrebbero riprenderla. Un vulcano si definisce invece estinto quando l’ultima eruzione risale a oltre diecimila anni fa. Infatti i vulcanologi non dichiarano un vulcano estinto fin quando, attraverso studi geologici e sismologici, non escludono che vi sia ancora una fonte di magma utile a farlo rientrare in attività. Cosi come nel mondo, anche in Italia vi sono molti vulcani estinti. Uno tra questi è il Monte Vulture, situato nel nord della Basilicata, un edificio che raggiunge un’altezza di 1327 metri s.l.m. e presenta un enorme cratere occupato da due laghi vulcanici (laghi di Monticchio). Spostandoci verso il centro del Paese, possiamo trovare i vulcani estinti dei Monti Vulsini, il cui cratere principale è oggi trasformato in una depressione riempita dalle acque del Lago di Bolsena, in provincia di Viterbo. Un’altra area vulcanica laziale è rappresentata dai Colli Albani, ultima eruzione 11.400 anni fa. Sono vulcani inattivi anche il vulcano di Roccamonfina, a nord del M.te Massico, all’interno della depressione del Garigliano, all’estremità nord-occidentale della Campania. Il magmatismo di quest’area si è protratto per un periodo di tempo compreso tra 630mila e 50mila anni fa. In questo particolare elenco vanno infine citate pure le isole di Procida e Vivara, all’estremità nord-occidentale del Golfo di Napoli, tra Ischia e il Monte di Procida (Campi Flegrei). Esse si sviluppano su un basso fondale (circa 20 metri) e costituiscono un campo vulcanico caratterizzato dalla presenza di almeno sette centri eruttivi, che hanno dato essenzialmente eruzioni esplosive. L’attività vulcanica nell’area è cominciata circa 50mila anni fa, e si è protratta sino a circa 19mila anni fa, sovrapponendosi in parte all’attività di Ischia e della caldera Flegrea. A conclusione di questa breve analisi, va necessariamente precisato che in rari casi è stata osservata una straordinaria ripresa dell’attività anche da parte di vulcani classificati come estinti. Per esempio nel Febbraio 2019 è stato scoperto che il vulcano Bolshaya Udina (Russia), ritenuto estinto, sarebbe attivo e pronto ad eruttare in qualsiasi momento. Ciò in alcuni casi è effettivamente possibile, anche quando l’ultima eruzione è avvenuta oltre 10mila anni fa. Un lasso di tempo in genere abbastanza lungo che permette ai vulcanologi di affermare, con buona probabilità (ma non con l’assoluta certezza), che il vulcano in questione possa ritenersi estinto. Come detto, in alcuni casi però, seppur molto raramente, le camere magmatiche dei vulcani possono iniziare (a distanza di migliaia di anni) un nuovo ciclo di alimentazione. Uno scenario che è in atto nei pressi di Roma, a qualche chilometro di profondità sotto l’area dei Colli Albani, dove si starebbe accumulando nuovo magma. Il vulcano dei Colli Albani, la cui ultima attività risale ad oltre 36mila anni fa, perciò non sarebbe estinto e secondo uno studio dell’INGV, Università Sapienza di Roma, Cnr e Università di Madison, entro il prossimo millennio potrebbe addirittura risvegliarsi del tutto! A tal proposito l’area dei Colli Albani è soggetta a bradisismo, proprio come i Campi Flegrei, e dal 1950 si sarebbe sollevata di oltre 30 centimetri.
La storia del nucleare nel mondo, civile o militare che sia, è costellata da una miriade di incidenti ed esplosioni sperimentali che costituiscono ancora oggi la prima e più importante prova della sua pericolosità non solo per l’uomo, ma per l’intero pianeta. Il tentativo di operare una classificazione completa di questo genere di eventi è impresa ardua: spesso gli incidenti minori sono stati coperti dal segreto militare, o non sono mai balzati alle cronache perché semplicemente non sono stati resi di pubblico dominio, come tentarono di fare le autorità sovietiche (inutilmente, data la gravità dell’episodio) all’indomani della catastrofe del 1986. Alcuni fatti sono emersi soltanto dopo la fine della guerra fredda, ma solo la completa apertura degli archivi consentirà una visione precisa di quanto è successo negli ultimi decenni. La lista “nera”, quindi, si presume molto più lunga di quella che viene qui presentata, mentre sulle conseguenze degli incidenti manca ancora oggi un dato ufficiale che consideri, non solo le morti, ma anche l’impatto sulla salute dei cittadini nel lungo periodo. Nella cronologia che segue e che non ha la pretesa di essere completa, sono stati omessi numerosi piccoli episodi occorsi in Europa negli ultimi vent’anni. Gli incidenti nucleari si misurano in base all’International Nuclear Event Scale (INES) che, pur non essendo una perfetta rappresentazione della gravità di un incidente, è l’unico indice disponibile con un minimo di affidabilità. Sulla scala INES esistono 8 livelli, dal livello zero, assegnato ad anomalie minori e senza rilevanza per la sicurezza, fino al livello sette, per le catastrofi più gravi. Inoltre, è importante sapere che si tratta di un indice a scala logaritmica, il che significa che ogni livello successivo è circa 10 volte più grave di quello precedente. Di seguito ne viene riportata una schematizzazione semplificata:
Livello 0 (deviazione): evento senza rilevanza sulla sicurezza.
Livello 1 (anomalia): evento che si differenzia dal normale regime operativo, che non coinvolge malfunzionamenti nei sistemi di sicurezza, né rilascio di contaminazione, né sovraesposizione degli addetti.
Livello 2 (guasto): evento che riguardi malfunzionamento delle apparecchiature di sicurezza, ma che lasci copertura di sicurezza sufficiente per malfunzionamenti successivi, o che risulti in esposizione di un lavoratore a dosi eccedenti i limiti e/o che porti alla presenza di radionuclidi in aree interne non progettate allo scopo, e che richieda azione correttiva.
esempi: l’evento di Civaux, in Francia (1998) e di Forsmark, in Svezia (2006).
Livello 3 (guasto grave): un incidente sfiorato, in cui solo le difese più esterne sono rimaste operative, e/o rilascio esteso di radionuclidi all’interno dell’area calda, oppure effetti verificabili sugli addetti, o infine rilascio di radionuclidi tali che la dose critica cumulativa sia dell’ordine di decimi di mSv.
Livello 4 (incidente senza rischio esterno): evento causante danni gravi all’installazione (ad esempio fusione parziale del nucleo) e/o sovraesposizione di uno o più addetti che risulti in elevata probabilità di decesso, e/o rilascio di radionuclidi tali che la dose critica cumulativa sia dell’ordine di pochi mSv.
Livello 5 (incidente con rischio esterno): Evento causante danni gravi all’installazione e/o rilascio di radionuclidi con attività dell’ordine di centinaia di migliaia di TBq come 131I, e che possa sfociare nell’impiego di contromisure previste dai piani di emergenza.
esempi: l’incidente di Three Mile Island, negli USA (1979), l’incidente di Windscale, in Gran Bretagna (1957) e l’incidente di Goiânia, in Brasile (1987).
Livello 6 (incidente grave): evento causante un significativo rilascio di radionuclidi e che potrebbe richiedere l’impiego di contromisure.
esempi: l’incidente di Kyštym, in URSS (1957).
Livello 7 (incidente molto grave): evento causante rilascio importante di radionuclidi, con estesi effetti sulla salute e sul territorio.
esempi: l’incidente di Černobyl’, in URSS (Attuale Ucraina) (1986) e l’incidente di Fukushima, in Giappone (2011).
In considerazione di tutto ciò, ecco i 10 più gravi incidenti nucleari della storia.
CHERNOBYL (Ucraina)
Il disastro nucleare di Chernobyl si è verificato il 26 aprile 1986, quando la centrale nucleare era sotto il controllo delle autorità dell’Unione Sovietica. Una esplosione e un incendio rilasciarono grandi quantità di particelle radioattive nell’atmosfera, che si diffusero su gran parte dell’URSS occidentale e in Europa. Viene considerato il peggior incidente nucleare della storia in termini di costi e in termini di morti, classificato come evento a livello 7, sulla scala internazionale degli eventi nucleari. Per contenere la contaminazione e scongiurare danni maggiori, sono stati impiegati 500 miliardi di rubli. Nell’incidente sono morte 31 persone, mentre tentavano di spegnere l’incendio, ma gli effetti a lungo termine sulla salute delle persone non sono stati ancora contabilizzati.
FUKUSHIMA (Giappone)
Questo incidente, anch’esso classificato come evento a livello 7, è stato causato da un errore irreversibile alla centrale nucleare di Fukushima I, in data 11 marzo 2011, con conseguente crollo di tre dei sei reattori nucleari della centrale. L’errore si è verificato quando l’impianto è stata colpito da uno tsunami innescato dal terremoto di Tōhoku. Tuttavia, nessuno morì durante l’incidente, ma le conseguenze sulla salute delle persone furono drammatiche e, secondo alcuni studi, indotte non solo dalla contaminazione ma anche dallo stress dell’evento.
KYSHTYM (Russia)
Era il 29 settembre 1957 a Mayak, in Unione Sovietica, un sito di produzione di plutonio per armi nucleari e un impianto per il ritrattamento di combustibile nucleare, quando si verificò l’incidente. La contaminazione radioattiva, un livello 6, colpì la città di Ozërsk, costruita intorno all’impianto. Poiché Mayak/Ozërsk non sono segnate sulle mappe geografiche, il disastro è stato chiamato Kyshtym, al nome della città conosciuta più vicina. Il numero di morti in questo incidente non è noto a causa della censura sovietica.
WINDSCALE (Regno Unito)
L’incendio di Windscale, avvenuto il 10 ottobre 1957, è stato il peggior incidente nucleare della storia della Gran Bretagna, classificato a livello 5 nell’International Nuclear Event Scale. Quel giorno, il nucleo del reattore dell’Unità 1 prese fuoco, bruciando per 3 giorni, con un rilascio di materiale radioattivo in tutto il Regno Unito e in Europa. Si è stimato che l’incidente ha causato 240 nuovi casi di cancro.
THREE MILE ISLAND (Stati Uniti)
Questo incidente si è verificato il 28 marzo 1979 a Dauphin County, Pennsylvania, con la parziale fusione di uno dei reattori nucleari. L’incidente è stato classificato di livello 5.
GOIANIA (Brasile)
Verificatosi il 13 settembre 1987, a Goiânia, nello stato brasiliano di Goiás, è stato un incidente di contaminazione radioattiva al Cesio-137. Tutto è iniziato con il furto di una vecchia fonte di radioterapia da un sito ospedaliero abbandonato. Passando poi di mano in mano, causò quattro morti e contaminò 112.000 persone. Secondo il Time è stato uno dei peggiori disastri nucleari del mondo.
SL-1 (Stati Uniti)
Era un reattore sperimentale nucleare dell’esercito americano che, il 3 gennaio 1961, esplose uccidendo tre operatori. L’incidente rilasciò circa 80 curie di iodio-131 e circa 1.100 curie di prodotti di fissione in atmosfera.
SAINT-LAURENT (Francia)
La Power Station nucleare di Saint-Laurent si trova nel comune di Saint-Laurent-Nouan a Loir-et-Cher, sul fiume Loira, a 30 chilometri da Orléans. Il 17 ottobre 1969, 50 chilogrammi di uranio in uno dei reattori cominciarono a sciogliersi. Questo incidente è stato classificato a livello 4.
RA-2 RESEARCH REACTOR (Argentina)
Il 23 settembre 1983, durante un esperimento nella configurazione del nocciolo del reattore, furono commessi errori in violazione alle norme di sicurezza da parte di un operatore che ricevette 200 Rads dai raggi gamma e 1.700 Rads dai raggi di neutroni. Questa enorme quantità di radiazioni lo uccise in due giorni.
TOKAIMURA (Giappone)
Tōkai è un villaggio situato in Giappone, sulla costa del Pacifico. Il 30 settembre 1999 un incidente nell’impianto di ritrattamento nucleare, causato dall’inesperienza di 3 operai che stavano preparando un piccolo lotto di combustibile per il reattore sperimentale autofertilizzante Joyo, scatenò la reazione a catena di fissione nucleare, con l’emissione di grandi quantità di raggi gamma e radiazioni di neutroni.
Rimandando a un prossimo intervento l’analisi del nucleare italiano (e degli incidenti che ne hanno frequentemente caratterizzato la storia), non mi resta che chiudere questo articolo con una frase che lo stesso Julien Collet, vicedirettore generale dell’Autorità per la sicurezza nucleare francese, ha recentemente riferito al network LifeGate: “Centrali nucleari sicure al 100 per cento non esistono. Si può fare ciò che è necessario per tentare di minimizzare i rischi, ma è impossibile escludere un incidente”.
Con l’articolo di oggi si conclude la disamina dei vulcani attivi italiani, iniziata ormai diversi anni fa. Si è trattato di un percorso lungo e articolato, che spero vi abbia fornito delle informazioni essenziali su un fenomeno allo stesso tempo pericoloso e affascinante, che interessa in modo diretto buona parte del nostro Paese. E la nostra avventura non poteva che concludersi con l’esame del Marsili, star indiscussa del web, visto che non passa giorno che non compaia qualche notizia su un suo possibile risveglio. Logicamente, come ho già fatto in tutti gli altri casi, anche stavolta mi limiterò a riportare esclusivamente notizie e informazioni fondate su seri e rigorosi studi scientifici, lasciando agli assidui frequentatori dei social-network ogni fantasiosa e apocalittica farneticazione priva di fondamento. Come di certo molti già sapranno, il Marsili è il vulcano sommerso più grande d’Europa e del Mediterraneo localizzato nel Tirreno tra Palermo e Napoli. È lungo circa 70 km, largo 30 e copre un’area di circa 2.100 km quadrati. Si tratta di un gigante adagiato a circa tre chilometri sul fondo del mare, con la sommità a poco più di 500 metri sotto il livello del mare. Sebbene non venga quasi mai precisato, il Marsili non è solo, perché nel Tirreno esistono altri grandi vulcani ancora poco studiati, dal Vavilov al Magnaghi, al Palinuro, fino ai più piccoli Glauco, Eolo, Sisifo, Enarete. Tutti, comunque, meritevoli di attenzione. Per quanto riguarda, invece, lo stato attuale del Marsili, dalle ricerche dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) (in collaborazione con altri istituti di ricerca) emerge che il mostro sottomarino è ancora attivo, ovvero possiede il potenziale per una eventuale possibile eruzione.
Sebbene si conosca ancora poco della sua storia eruttiva a causa dell’inacessibilità geografica, sappiamo che essa è molto lunga, essendo iniziata tra 0.7 e 1 milione di anni fa. Le sue rocce hanno un’affinità calcacalina da bassa ad alta in potassio e variano in composizione da basalti a trachiti. Nella sua lunga attività, collocabile soprattutto fra 0.78 and 0.1 in base ai dati di età disponibili, ha dato luogo ad eruzioni prevalentemente effusive e, in misura minore, esplosive a bassa energia.
Studi recenti hanno stabilito che le ultime eruzioni siano avvenute in epoca storica, tra 2100 e 3000 anni fa, da piccoli coni localizzati nella parte centrale dell’apparato vulcanico. L’attività attuale del Marsili è caratterizzata da fenomeni vulcanici secondari, in particolare degassamento sottomarino, e da sismicità di bassa magnitudo indotta da processi vulcano-tettonici e idrotermali; i terremoti sono registrati solo da stazioni poste sul fondo del mare intorno al vulcano. Non vi sono evidenze morfologiche di grandi frane o collassi avvenute nel passato, ma sono in corso attività di ricerca per valutare la effettiva stabilità dell’edificio.
Per quanto concerne l’attività futura, Guido Ventura, ricercatore dell’INGV e dell’IAMC, afferma che in caso di eruzione sottomarina a profondità di 500-1000 metri sul Marsili, “l’unico segno in superficie sarebbe ‘l’acqua che bolle’ legata al degassamento e galleggiamento di materiale vulcanico (pomici) che rimarrebbe in sospensione per alcune settimane (come accadde per l’eruzione del 2011 al largo dell’isola di El Hierro alle Canarie). Il rischio vulcanico associato a eruzioni sottomarine di questo tipo è estremamente basso, e un’eruzione a profondità maggiore di 500 metri comporterebbe probabilmente soltanto una deviazione temporanea delle rotte navali. Anche il rischio legato a possibili tsunami correlati a eruzioni come quelle più recenti è minimo. Purtuttavia, l’evenienza che settori del vulcano possano destabilizzarsi e franare in caso di deformazioni indotte dalla risalita di significative (chilometri cubi) quantità di magma, non può essere esclusa a priori”. Comunque, negli ultimi 700mila anni non vi sono evidenze morfologiche che questo sia avvenuto. Inoltre, il vulcano e’ stabilizzato meccanicamente da una serie di fratture riempite da magma ormai raffreddato che fungono da ‘muri di contenimento’. “Sui fianchi del vulcano vi sono evidenze di franamenti estremamente localizzati e di spessori ridotti, i cosiddetti franamenti pellicolari, che, come noto, non producono tsunami. Questi fenomeni sono molto comuni sui fianchi dei vulcani, nelle zone sommerse vicine alla costa, e alle foci dei grandi fiumi”, aggiunge Ventura. Ciò nonostante, per una valutazione complessiva della stabilità dei fianchi del Marsili in relazione al possibile collasso di parte del vulcano indotto dalla risalita di significative quantità di magma, “è assolutamente prioritario effettuare una stima della stabilità dei versanti basata sui parametri fisici delle rocce coinvolte nel potenziale franamento, valutare il volume di roccia potenzialmente coinvolto, conoscerne le modalità di movimento lungo il pendio e, una volta noti tutti i parametri, verificare se il volume di roccia e la dinamica della possibile frana sottomarina sono compatibili con l’innesco di uno tsunami. Da qui la necessità di nuove ricerche per implementare un sistema di monitoraggio che possa valutare l’effettiva pericolosità connessa a un collasso di parte dell’edificio”. Terminata l’analisi del Marsili, si conclude anche l’excursus sui vulcani attivi presenti sul territorio italiano. Prima di voltare definitivamente questa lunga pagina (che tuttavia in futuro potrebbe essere soggetta a eventuali modifiche e aggiornamenti), nei prossimi giorni non mi resterà che proporvi una breve descrizione dei vulcani estinti distribuiti lungo lo Stivale, in modo da completare il quadro vulcanologico che ha interessato la nostra storia geologica dalla nascita ai nostri giorni.
Anche il lettore che si è trovato a passare per il mio blog nella maniera più distratta possibile si è potuto facilmente rendere conto che in questi due anni di pandemia mi sono volutamente tenuto lontano dal trattare questa tematica, considerandola già ampiamente affrontata sui mass media e sui social-network, da personale qualificato e non. Tuttavia questa sera desidero fare un’eccezione, non di certo per andare a incrementare la schiera di neo-virologi e neo-infettivologi che spuntano quotidianamente da ogni angolo del Paese (e purtroppo mai dalle porte di un ateneo universitario), ma solo per provare a ricordare (o, in molti casi, a comunicare) ai “Caiafa” del Duemila che per fortuna la pratica della vaccinazione in Italia è già un obbligo da molti anni e che nel frattempo ha portato non solo alla eradicazione totale di una terribile malattia come il vaiolo (OMS, 1980), ma ha anche permesso di salvare migliaia di persone dalla morte o da gravi forme di disabilità (vedi poliomelite). Il fronte dei cosiddetti “no-vax” e dei “no-green pass” è composto da una platea molto eterogenea, che difficilmente qualcuno potrebbe esaurientemente descrivere, ma io sono convinto che la maggior parte sia costituita da persone vittime dell’ignoranza e del populismo propagandato da qualche personaggio in disperata ricerca di visibilità. Non desidero perdere nemmeno un secondo a parlare delle folkloristiche manifestazioni di protesta inscenate in molti centri cittadini, né tantomeno dei numerosi episodi di violenza verbale e materiale consumati durante il loro svolgimento, per cui, come è mio solito, tenterò di rispondere alle farneticanti elucubrazioni negazioniste e complottiste semplicemente pubblicando l’elenco dei vaccini attualmente obbligatori nel nostro Paese, proprio così come viene riportato sul sito istituzionale https://www.salute.gov.it/.
Legge vaccini
Il Decreto vaccini ha portato il numero di vaccinazioni obbligatorie nell’infanzia e nell’adolescenza nel nostro Paese da quattro a dieci. L’obiettivo è di contrastare il progressivo calo delle vaccinazioni, sia obbligatorie che raccomandate, in atto dal 2013 che ha determinato una copertura vaccinale media nel nostro Paese al di sotto del 95%. Questa è la soglia raccomandata dall’Organizzazione mondiale della sanità per garantire la cosiddetta “immunità di gregge”, per proteggere, cioè, indirettamente anche coloro che, per motivi di salute, non possono essere vaccinati. Permetterà inoltre il conseguimento degli obiettivi prioritari del Piano nazionale prevenzione vaccinale 2017-2019, di cui all’intesa sancita dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano in data 19 gennaio 2017, ed il rispetto degli obblighi assunti a livello europeo ed internazionale.
L’obbligatorietà per le ultime quattro (anti-morbillo, anti-rosolia, anti-parotite, anti-varicella) è soggetta a revisione ogni tre anni in base ai dati epidemiologici e delle coperture vaccinali raggiunte.
Sono, inoltre, indicate ad offerta attiva e gratuita, da parte delle Regioni e Province autonome, ma senza obbligo vaccinale, le vaccinazioni:
anti-meningococcica B
anti-meningococcica C
anti-pneumococcica
anti-rotavirus.
Vaccini obbligatori per anno di nascita
Le vaccinazioni obbligatorie sono gratuite e devono tutte essere somministrate ai nati dal 2017. Per i nati dal 2001 al 2016 devono essere somministrate le vaccinazioni contenute nel calendario vaccinale nazionale vigente nell’anno di nascita (tutte tranne anti-varicella). La vaccinazione per la varicella è obbligatoria soltanto per i nati a partire dal 2017. Ecco uno schema degli obblighi vaccinali, in relazione all’anno di nascita:
Vaccinazione \ Anno
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
2016
2017
anti-poliomielitica
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anti-difterica
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anti-tetanica
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anti-epatite B
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anti-pertosse
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anti-Haemophilus tipo b
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anti-morbillo
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anti-rosolia
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anti-parotite
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X
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anti-varicella
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Calendario vaccinale
Il Calendario vaccinale, incluso nel Piano Nazionale Prevenzione Vaccinale (PNPV) 2017-2019, approvato in Conferenza Stato-Regioni con Intesa del 19 gennaio 2017, è stato inserito nel DPCM sui Livelli essenziali di assistenza (LEA). Il decreto vaccini ha successivamente reso obbligatorie per i minori di 16 anni dieci delle vaccinazioni e ne ha fortemente raccomandate quattro ad offerta attiva e gratuita. Ma nel PNPV 2017-2019 sono altresì indicate in offerta attiva e gratuita anche le vaccinazioni antipapilloma virus (HPV) negli undicenni e anti-meningococcica tetravalente ACWY nell’adolescenza, che ovviamente mantengono il loro importante ruolo all’interno di una cornice di offerta vaccinale che mira alla protezione della popolazione fino all’età avanzata, sia attraverso i richiami periodici sia mediante vaccinazioni raccomandate specificatamente per l’anziano.
Sono offerte gratuitamente e attivamente dal Servizio sanitario nazionale (SSN) le seguenti vaccinazioni:
Bambini da zero a 6 anni
Anti-difterica: ciclo di base 3 dosi nel primo anno di vita e richiamo a 6 anni (obbligatoria per i nati dal 2001)
Anti-poliomielite: ciclo di base 3 dosi nel primo anno di vita e richiamo a 6 anni (obbligatoria per i nati dal 2001)
Anti-tetanica: ciclo di base 3 dosi nel primo anno di vita e richiamo a 6 anni (obbligatoria per i nati dal 2001)
Anti-epatite virale B: 3 dosi nel primo anno di vita (obbligatoria per i nati dal 2001)
Anti-pertosse: ciclo di base 3 dosi nel primo anno di vita e richiamo a 6 anni (obbligatoria per i nati dal 2001)
Anti-Haemophilus influenzae tipo b: 3 dosi nel primo anno di vita (obbligatoria per i nati dal 2001)
Anti-meningococcica B: 3 o 4 dosi nel primo anno di vita, a seconda del mese di somministrazione della prima dose (fortemente raccomandata per i nati a partire dal 2017)
Anti-rotavirus: 2 o 3 dosi nel primo anno di vita, a seconda del tipo di vaccino (fortemente raccomandata per i nati a partire dal 2017)
Anti-pneumococcica: 3 dosi nel primo anno di vita (fortemente raccomandata per i nati a partire dal 2012)
Anti-meningococcica C: 1° dose nel secondo anno di vita (fortemente raccomandata per i nati a partire dal 2012)
Anti-varicella: 1° dose nel secondo anno di vita e 2° dose a 6 anni (obbligatoria per i nati dal 2017)
Anti-morbillo: 1° dose nel secondo anno di vita e 2° dose a 6 anni (obbligatoria per i nati dal 2001)
Anti-parotite: 1° dose nel secondo anno di vita e 2° dose a 6 anni (obbligatoria per i nati dal 2001)
Anti-rosolia: 1° dose nel secondo anno di vita e 2° dose a 6 anni (obbligatoria per i nati dal 2001)
Adolescenti
Anti-difterica: richiamo (obbligatoria per i nati dal 2001)
Anti-poliomielite: richiamo (obbligatoria per i nati dal 2001)
Anti-tetanica: richiamo (obbligatoria per i nati dal 2001)
Anti-pertosse: richiamo (obbligatoria per i nati dal 2001)
Anti-HPV per le ragazze e i ragazzi (2 dosi nel corso del 12° anno di vita)
Anti-meningococcica tetravalente ACWY135 (1 dose)
Adulti
Anti-pneumococcica nei 65enni
Anti-zoster nei 65enni
Anti-influenzale per tutte le persone oltre i 64 anni.
Categorie a rischio
Il PNPV 2017-2019 prevede anche l’offerta a diverse categorie di persone sulla base dell’esistenza di determinate condizioni di rischio.
Infine va necessariamente aggiunto che, data la definitiva eradicazione della malattia, la vaccinazione obbligatoria per il vaiolo è stata sospesa a partire dagli anni ’70 e ’80 in tutti i Paesi. In Italia, la vaccinazione è stata sospesa nel 1977 e definitivamente abrogata nel 1981.
In fondo all’articolo è possibile scaricare il calendario vaccinale in formato pdf.
L’inaspettata svolta che la pandemia ha dato alla nostra vita ormai due anni fa ci ha introdotto in un mondo quasi nuovo, sul quale, oltre alle naturali angosce legate al destino dell’umanità, si sono affacciate di prepotenza delle figure rimaste relegate fino al giorno prima a una dimensione fatta di riservatezza e discrezione. All’improvviso mass media e social network sono stati inondati da personaggi che, ostentando conoscenze e competenze reali o millantate, hanno spesso innescato discussioni e polemiche che hanno contribuito a rendere ancora più difficile la gestione del problema. Lungi da me la volontà di criticare o di sminuire la preziosa funzione svolta dagli operatori della sanità, ma va detto che a incrementare la confusione diffusa dal virus a livello mondiale hanno contribuito anche alcuni medici, i quali, sovraesponendosi in rete e in televisione (a volte addirittura partecipando a trasmissioni che a definirli “spazzatura” si farebbe un’offesa ai rifiuti solido-urbani) hanno finito per infondere nella gente un’idea di una figura professionale troppe volte più vicina a quella di uno showman che a quella di uno specialista della medicina. Sia chiaro, non avendo svolto un’indagine approfondita e non possedendo le competenze sociologiche per farlo, intendo qui esporre solamente una mia personale impressione, che trova però riscontro in riflessioni di esperti del settore. Io credo che la pandemia sia stata solo l’occasione per permettere a questi medici di manifestare pubblicamente il proprio egocentrismo e di dimostrare quanto sia lontanto il loro modo di occuparsi della salute pubblica da quanto indicato da Ippocrate ben oltre duemila anni fa, perché la mia personale esperienza già da diverso tempo mi dice che passione, dedizione e partecipazione emotiva sono pressoché scomparse da questo mondo. Certo, comprendo che la storia dell’uomo va avanti e che anche la figura del medico aveva il diritto e probabilmente il dovere di evolversi, ma io sono convinto che qualsiasi cambiamento non avrebbe dovuto ridurre la sua autorevolezza, che si nutre di riservatezza, di competenza, di professionalità e di rigore. E infatti, uno dei primi segnali che qualcosa stava cambiando in peggio ce lo ha indicato il prof. Umberto Veronesi già dieci anni fa con un articolo scritto sul sito della sua fondazione (https://www.fondazioneveronesi.it), nel quale riporta il malcontento di amici e conoscenti circa l’operato di alcuni medici, rei di prestare poca attenzione ai dubbi e alle preoccupazioni del paziente di turno e di essere troppo concentrati solo su se stessi. Non essendo in grado di aggiungere altro alle riflessioni del grande luminare della medicina, preferisco tacere e limitarmi a riportare qui sotto la sue stesse parole, che potrete leggere in originale attraverso il link riportato in calce.
“Da troppo tempo amici e conoscenti mi confidano l’insoddisfazione che provano quando devono chiamare il medico di famiglia o lo vanno a trovare per una visita, magari urgente. “Non mi ascolta, non mi lascia dire tutto quello che vorrei”, è più o meno la lamentela. Io credo che tre sono gli elementi essenziali che compongono una buona visita medica e quindi qualificano un bravo medico: l’osservazione, l’ascolto del racconto del malato, la simpatia umana. Ma è davvero così che si svolge una visita dal medico? Direi che spesso non lo è, e lo dimostrano le confidenze che mi arrivano da più parti. La sanità rischia di diventare una catena di montaggio, e i medici hanno fretta, sempre più fretta. Già qualche anno fa uno studio europeo stimava in pochi secondi il tempo che intercorre tra l’inizio del racconto del paziente e la prima interruzione del medico, che in genere inizia a parlare magari per formulare subito una diagnosi. Mentre la stessa ricerca internazionale ritiene che siano necessari almeno due minuti per assorbire le informazioni. Spesso il medico interrompe, in continuità, come un conduttore televisivo. E così perfino i pazienti organizzati (quelli che si sono segnati su un foglietto le cose da dire e da chiedere) perdono il filo del discorso, si scoraggiano, balbettano, tacciono. Oh, bene. Adesso che il malato si è azzittito, il medico può parlare, e lo fa. In fretta, naturalmente. Senza risparmio di parole tecniche, che annebbiano ancor più la mente del povero paziente, formula la diagnosi, segna gli esami di laboratorio e le visite specialistiche, sorride (a volte), congeda. Naturalmente non sempre è così, ma la tendenza va in questa direzione. E’ un errore. Non è questo il medico che ci serve, e una medicina organizzata su questi ritmi assurdi sarà per forza inefficace e anche costosa. Inefficace perché non approfondisce e quindi si espone all’errore. Costosa perché inevitabilmente non sceglie un razionale e meditato percorso diagnostico, e preferisce gli esami “a pioggia”. Credo di non aver bisogno di aggiungere che questo medico è il contrario di quello che un paziente desidera“.